07/07/2015 askatasuna Scendendo verso il rio Auempoch sorrido al sole e rugno all’asfalto. So già che domani, quei ridicoli 160 metri in salita mi faran sudare. Poi compare un Martagone e non ci penso più. La risalita del greto del Bosclaf è un continuo alzar la testa ad ammirare quelle montagne di cenere che terminano con delle possenti cime rocciose. Poi tutto cambia, et voilà, si entra nella morbidezza! I prati sottostanti la casera ondeggiano al vento, un mare di Rabarbaro alpino che lievemente dondola i pennacchi. Casera Giaveada è chiusa, ma nelle stalle ruminan le sorprese. Il ricovero è in realtà un signor bivacco. Ancora da ultimare ma già con sette reti, uno spolert, un tavolo e del mobilio da taverna. Respiro colore, immagazzinandolo ovunque, più in alto mi immagino solo grigiore e scope che volano. Salendo fan capolino le cime della val Pesarina ed accanto ai discreti segnavia biancorossi, già da lontano noto qualcosa di strano. TDO. Tre lettere e una freccia. Tutto rosa shocking. Ma che è? Ti di o…Mi usciranno ipotesi strampalate e assurde prima di capire che il troi coincide col tracciato del Trail delle Orchidee. 48 chilometri 48 che seguon l’orlo della valle. Mi chiedo solo, vista la quantità di scritte incontrate in due giorni, se fosse proprio necessario graffitare a spray tutti quei massi. Più comodo sicuro, ma anche più indelebile! Le venature rossastre del Bivera, pettinate dai millenni, paion muoversi. Belle da toglier il fiato. M’immagino se quel monte fosse tutto così vestito, denudato del suo cappotto roccioso. Me lo sogno dopo una pioggia, lucido e brillante! Nel catino un rumore mi richiama alla realtà. Sotto di me gorgoglia l’acqua. Scende a valle. Invisibile, a distanza di pochi sassi. Scorre. Borbottando qualcosa. Poi ecco la forcella. E l’altopiano. Stranisce, come se su quei prati formati da cocuzzoli e poggi, avesse grandinato una marea di sassolini. Seguo la dorsale oltre il troi per ammirare le bastionate. Un metro uno separa il colore dalle mille sfumature del grigio. Inizio a scendere, mentre sulla scopa volante non son arrivate le Stries ma un gran sabba di nuvolaglia grigiofumo, a far pendant con le ghiaie e le due cime che paion volersi ingoiare l’altopiano tutto. Mi faccio largo in un mare di ranuncoli prendendo il 212 in discesa. Meta: il rifugio a cinque stelle Costa Baton. L’ultimo pezzo che porta alla confluenza con il 213 più che un troi è una scomoda calata in un impluvio detritico. Da evitare se ghiacciato o bagnato. Poi ecco il Rancolin! Figurati se me lo perdo. Giunto alla forcella, punto per la cresta. In tre anni il troi mi sembra si sia rovinato un po’, erodendosi in diversi punti, ma senza inficiar la sua percorrenza. Dalla cima il panorama è attutito dalla foschia ma è impressionante come lo ricordavo. Da un lato la potenza dei vicini massicci, dall’altro quelle muraglia infinita a suturare l’orizzonte con le sue guglie. Poco prima della casera un prato è ricolmo degli scheletri di grandi ombrellifere che svettano tra le alte erbe. Sopravvissuti all’inverno paiono minuscoli alberi rinsecchiti dalle fiamme. Attorno alla casera le Scorzonere si preparan a riempir i prati di tenerezza. Io finalmente torno a Costa Baton come ospite. Per passar la notte nel più bel ricovero del Friuli. Ogni sguardo fa intuire la cura e l’amore dei fornesi per questo luogo. Tra le pagine del libro risaltan più volte le perentorie parole: Vuleivi ben e vonde!. A sares propit di scoltalu…(30.06.2015)