24/06/2014 askatasuna L’idea è quella di ampliare l’anello dividendolo in due giornate. Lascio l’auto al Pussa e tra prati di orchidee maculate, cascate e transumanze varie imbocco il 370. Il troi sale adagio, gentile, mentre mi perdo nell’intenso rincorrersi delle farfalle. Poi il bosco si chiude, protettivo. Ma non buio. Decine di violacee fiammelle accompagnano l’incedere. I ciclamini oggi sembran ardere di colore. Dopo il bivio con il 388 il troi inizia a salire bene, io male. Giungo affannato al bel traverso ove emergono le crepe dell’inverno. Il percorso si sfaglia come pelle di mani che s’aprono al gelo. Ferito dal troppo peso, ma non a morte, i tratti più danneggiati infatti, non sono problematici. Raggiungo la casera in contemporanea con due scout in perlustrazione. In agosto ritorneranno in 60 dormendo in tenda su questi prati. Un brivido percorre la mia schiena e quella di due stambecchi che passano tranquilli a pochi metri. Tornerò solo dopo qualche ora in questo splendido bivacco, alla fine di una tormentata traversata in cresta. Il giorno successivo il sole scioglie i fantasmi e il Pramaggiore appare in tutta la sua massiccia bellezza mentre il Rua è un profilo scuro che si nota a fatica nella bruma. Finalmente Cornaget e Caserine si fan vedere ma la spensieratezza dura poco: è deciso, rifarò la tratteggiata per completar l’anello (vedi commento forca Rua). Di prima mattina gli appoggi sui terreni franati e franosi sembrano più insicuri, ma non c’è spazio per titubare. Una volta sul 373 torno in forcella. Il troi verso il passo di Suola pare smangiucchiato più del solito e striminzito per l’accumulo di detriti. Una volta sciolti i nevai sarà d’obbligo informarsi sul suo stato prima di percorrerlo. Non individuo la traccia per ascender le Sarodine e tagliandone le pendici trovo ancora un pezzo franato, per fortuna qui i mughi ci sono e fungono da ancora di salvezza emotiva rendendo i passi sicuri. Poi, come a risarcimento, un prato di botton d’oro e poco dopo un Gallo Forcello che sfreccia rumoroso verso il bosco sottostante. La punta del Chiarescon buca il fiato, tento ben tre volte di fermarmi per mangiare ed ammirarlo come merita, ma dopo un minuto, all’atto di aprire la stagnola, due o tre zecche risalgono veloci i pantaloni. Uff! Riparto verso Lareseit superando l’ennesimo piccolo franamento per poi sbuffare davanti al simpatico saliscendi spaccagambe. Diversi scalini si sono sgretolati, il friabile la fa da padrone e per fortuna lo percorro in salita. Sul paradisiaco pianoro, immortalato dallo splendido commento precedente, respiro, a fondo, a lungo. Quest’anno ogni giro, per quanto breve può nascondere ostacoli insormontabili o insidie, a ciascuno valutare se intraprendere o no il viaggio e quando tirare saggiamente i remi in barca conoscendo le assi del proprio vascello. Per quest’odissea in particolare ormai è fatta, come mi confessa un’escursionista proveniente dalla direzione opposta. Da qui solo il disagio di oltrepassare diversi schianti. Una pacchia! M’infilo nel bosco. Di colpo una farfalla gialla s’adagia sulla spallina del mio zaino, trasformando l’adrenalina residua in miele. Sguardi, sorrisi, occhi che brillano e altri sorrisi. Riparto adagio e lei sempre lì. Per quasi due ore! A volte punta allo zaino, ove potrei farle male senza volerlo, allora la faccio salir sulle dita e la poso nuovamente sulla spalla. La farfalla, in questo caso, non pesa (come ha scritto qualcuno) anzi, scioglie ogni muscolo, le ossa sembran trasformarsi in aria, i piedi non strillano più. Ad accentuare l’estasi, un sentiero che spiazza, svirgolando dove meno te l’aspetti. Ma chi ha disegnato questa discesa? Sembra non voler portare da nessuna parte se non verso la pace dei sensi, un troi contemplativo, da assecondare nel ritmo, nel dondolio, nei respiri. Profondi. In una curva, un grande faggio e crollato sull’impluvio da attraversare, quando, a dieci metri, parte un camoscio. La scena è irreale. Ha sentito il mio odore mentre il rio copriva il suono dei passi. L’istinto lo porta a partire quando, in volo, con il corpo disteso al momento del massimo slancio, gira il muso e mi vede. Io, immobile dall’inizio, lo vedo planare, sul faggio. Di ventre. La povera bestiola mulina le zampe in aria per diversi secondi prima di riuscire a fuggire, rassicurandomi poi sulle sue condizioni continuando a soffiare, sempre più distante. “Farfi” nel frattempo è rimasta a banchettare sulla spalla dello zaino. Nulla la tange, neanche i passaggi tra le fronde degli schianti ove io divento un contorsionista, sforzandomi più del normale per tutelare la mia fragile dispensatrice di leggerezza. A mezz’ora dal rifugio le ali del mio respiro volan via senza motivo, senza un saluto, lasciandomi la leggiadria degli innamorati. Con i piedi nel Settimana finalmente mangio un meritato panino, togliendo le ultime zecche ormai pasteggianti pure loro. Ma il sorriso non se ne va e ritorna, esondante, ad ogni rimembranza di quella infinita dolcezza, nascosta in un piccolo battito d’ali e capace di scoperchiare il mio cuore.(21 e 22.06.2014)
22/06/2012 Fausto_Sartori L’escursionista EE sogna talvolta di aggiungere una E alla propria condizione. Quella ambita E in più si para innanzi brutale a forcella Lareseit, ove il sogno si infrange, e tocca da qui guardare carponi l’apparenza di cresta che scende verso cima Camosci tra i mughi. Il dramma dell’EE si consuma qui davanti alle Sarodine che sfuggono via, davanti a questa crestina invalicabile che farebbe ridere l’ultima delle triple E. Qui il mondo si squarcia, il di qua e l’al di là irraggiungibile, e non resta che arretrare atterriti davanti allo spettacolo dell’EEE. Pazienza. Ci si accomoda allora all’ombra del confortevole praticello, ad affogare la propria inettitudine nel solito panino, ma timorosi che la montagna non ceda. La forcella accoglie come nel palmo di una mano, basta solo scendere un poco dai suoi polpastrelli sul vuoto e la pace vertiginosa del luogo, il senso di una solitudine ancestrale sarà a prenderti per consegnarti al paradiso. Dopo il breve sonno, interrotto da presunti tafani, i piedi nudi saranno neri di formiche e toccherà spostarsi, ma anche qui esse avide ti raggiungeranno. A portare fin qui è lungo sentiero bizzarro che svolge spire sapienti in fragrante bosco e placido fra voci argentine di torrenti, uno dietro l’altro al punto che si può tranquillamente dimenticare a casa la borraccia. A parte topolini tuffanti nelle foglie secche del faggio e rari minuscoli uccellini, non si fece incontro alcuno, né in tutta la Val Settimana non s’udii che il canto solitario di una mucca rupestre.